domenica 28 febbraio 2021

Predicazione di domenica 28 febbraio 2021 su Isaia 5,1-7 a cura di Marco Gisola

Isaia 5,1-7

1 Io voglio cantare per il mio amico il cantico del mio amico per la sua vigna.
Il mio amico aveva una vigna sopra una fertile collina.
2 La dissodò, ne tolse via le pietre, vi piantò delle viti scelte,
vi costruì in mezzo una torre, e vi scavò uno strettoio per pigiare l’uva.
Egli si aspettava che facesse uva,invece fece uva selvatica.
3 Ora, abitanti di Gerusalemme e voi, uomini di Giuda, giudicate fra me e la mia vigna!
4 Che cosa si sarebbe potuto fare alla mia vigna più di quanto ho fatto per essa?
Perché, mentre mi aspettavo che facesse uva, ha fatto uva selvatica?
5 Ebbene, ora vi farò conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna:
le toglierò la siepe e vi pascoleranno le bestie; abbatterò il suo muro di cinta e sarà calpestata.
6 Ne farò un deserto; non sarà più né potata né zappata, vi cresceranno i rovi e le spine;
darò ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia.
7 Infatti la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele,
e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta;
egli si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!


Che cosa avrei potuto fare di più per voi? Questo viene a dirci oggi il Signore attraverso questa antica parola rivolta a Israele per bocca del profeta Isaia. Questa parola detta allora per Israele è detta oggi anche a noi. Così è la Parola di Dio, è radicata nella storia, viene pronunciata in un momento preciso a persone precise, ma poi è pronunciata in ogni tempo a tutti coloro che la vogliono ascoltare.
Che cosa avrei potuto fare di più per voi? Questo viene a chiederci oggi il Signore attraverso questa antica parola, che è una parola di giudizio. Una parola di giudizio che arriva a Israele sotto forma di parabola, di racconto, che vuole portare il popolo a pronunciare lui stesso il giudizio su di sé, come aveva fatto il profeta Natan con Davide.
È un racconto che a prima vista potrebbe essere un canto di amore, di un uomo che descrive la sua amata come una vigna: «Il mio amico aveva una vigna sopra una fertile collina. La dissodò, ne tolse via le pietre, vi piantò delle viti scelte, vi costruì in mezzo una torre, e vi scavò uno strettoio per pigiare l’uva. Egli si aspettava che facesse uva, invece fece uva selvatica…». Un canto di amore, ma di un amore deluso. 
La parola ebraica che qui è tradotta con uva selvatica è in realtà una parola molto rara che ha a che fare con qualcosa che puzza…! Dunque potremmo dire uva marcia, del marciume; doveva nascere uva pregiata e invece ecco che è marcia…!
Dopo i primi due versetti, prende la parola l’amico del profeta, cioè il proprietario della vigna ed è qui che quello che poteva sembrare un canto d’amore si trasforma in parola di giudizio, anzi in una richiesta che il proprietario della vigna fa a chi l’ascolta di giudicare: giudicate voi tra me e la mia vigna! Tra me che ho fatto tutto per lei e lei che produce frutti marci. 
E poi, poco più avanti, è chiaro che il padrone della vigna è Dio, perché solo lui può dare «ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia». E infine è detto esplicitamente che «la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele».
Che cosa si aspettava il padrone della vigna? Il padrone della vigna, cioè Dio, dalla vigna, che è Israele, si aspettava che facesse uva, uva buona ovviamente. Non si aspettava che la vite producesse angurie, non si aspettava cioè qualcosa che la vigna non poteva fare. Si aspettava uva, l’uva che quel tipo di vite era perfettamente in grado di produrre.
E invece produce uva marcia. L’ultimo versetto esce dall’immagine e ci dice chiaramente che cosa sta succedendo in mezzo al popolo: Dio «si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!». C’è violenza che fa scorrere sangue e fa gridare le vittime di angoscia. Questa è l’uva marcia.
Tutto l’ Antico Testamento – e poi anche tutto il Nuovo Testamento – ci dice che Dio non tollera l’ingiustizia; che Dio, che ha liberato il suo popolo, non tollera che nel suo popolo qualcuno tolga questa libertà agli altri. Che Dio, che ha nutrito il suo popolo nel deserto, non tollera che qualcuno venga ridotto alla fame. Anche oggi Dio guarda il mondo e vede scorrere sangue e ascolta le grida di angoscia di tutte le vittime. 
Dio non tollera l’ingiustizia, non tollera che la vigna faccia il contrario di ciò che dovrebbe fare. E il giudizio consiste nel fatto che Dio non si occupa più della vigna, non la guarda più, non la cura più, lascia il terreno in balìa degli animali che ne faranno il loro pascolo. 
Il giudizio è che se Israele abbandona Dio, Dio abbandona Israele. Certo vi sono molti brani nell’Antico Testamento in cui Dio dice che non abbandonerà mai il suo popolo, che se anche una madre dovesse, per assurdo, abbandonare suo figlio, non così si comporterà Dio. Ma qui il giudizio c’è e non possiamo cancellarlo.
Forse davanti a questa parola di giudizio rimaniamo interdetti, sconcertati. E nel nostro sconcerto corriamo due rischi:  il primo è quello della rassegnazione, di pensare che noi in fondo non siamo meglio di Israele, e che questo giudizio è rivolto oggi proprio anche a noi. 
Dio ha fatto molto per noi, anzi ha fatto tutto e per noi cristiani questo tutto è arrivato al dono di suo figlio per la nostra salvezza… e noi come gli rispondiamo? Forse che Dio vuole abbandonarci, come con la vigna del racconto di Isaia? 
Il secondo rischio è quello opposto, di sminuire questo testo, magari dicendo che non è rivolto a noi. In fondo è rivolto a Israele… oppure potremmo pensare che noi abbiamo Gesù che in lui il giudizio è superato dalla grazia e che quindi queste parole non sono per noi.
A me pare che questi due letture opposte non rendano ragione del testo così com’è. Nel primo caso o veniamo sopraffatti dalla rassegnazione davanti a queste parole oppure strappiamo via la pagina della Bibbia e non lo consideriamo. Nel secondo caso, se sminuiamo questo testo, diciamo in pratica che Dio oggi non ci parla, non sta parlando a noi.
Evitando questi due estremi, vorrei provare a leggere questo testo prendendolo così com’è e provando a entrarci dentro. Prenderlo così com’è vuol dire riconoscere che – sì - è una parola di giudizio; e che – sì - è rivolta a noi, non solo all’antico Israele allora, ma anche a noi oggi.
E entrarci dentro vuol dire provare a mettersi nei panni dell’ascoltatore di allora. Che cosa sente l’Israelita che ascolta Isaia pronunciare queste parole? Facciamo attenzione ai tempi dei verbi: 
«Che cosa si sarebbe potuto fare alla mia vigna più di quanto ho fatto per essa?» Dio ha fatto, ha già fatto, tutto quello che era possibile per la sua vigna, cioè per il suo popolo, cioè per noi. Per noi ha fatto tutto ciò che poteva, fino a mandare per noi Gesù, di più proprio non poteva fare… 
Nel momento in cui questa parola viene pronunziata da Isaia, Dio ha già fatto, fino a quel giorno Dio ha fatto tutto il possibile. E questo vale anche nel momento in cui noi ascoltiamo questa parola, che non è più soltanto detta allora a Israele, ma viene detta ora a noi. Oggi noi ascoltiamo questa parola, fino a oggi Dio ha fatto tutto il possibile per noi, di più non poteva fare.
E poi Dio fa dire a Isaia: «ora vi farò conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: le toglierò la siepe e vi pascoleranno le bestie; abbatterò il suo muro di cinta e sarà calpestata. Ne farò un deserto; non sarà più né potata né zappata, vi cresceranno i rovi e le spine; darò ordine alle nuvole che non vi lascino cadere pioggia».
Questo è ciò che Dio sta per fare. Ma non lo ha ancora fatto: tutti i verbi sono al futuro: toglierò la siepe, abbatterò il muro, ne farò un deserto…. Sono le intenzioni del contadino deluso dalla sua vigna che produce solo uva marcia.
Tra questo passato e questo futuro c’è il presente in cui la Parola di Dio raggiunge Israele attraverso Isaia. E raggiunge anche noi. 
In questo presente è vero ciò che dice l’ultimo versetto che abbiamo letto: «Infatti la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta; egli si aspettava rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; giustizia, ed ecco grida d’angoscia!»
In questo presente in cui la parola di Dio raggiunge Israele e raggiunge noi «la vigna del SIGNORE degli eserciti è la casa d’Israele, e gli uomini di Giuda sono la sua piantagione prediletta», Israele è ancora la vigna del Signore, gli uomini di Giuda sono ancora la sua piantagione prediletta. Dio non l’ha ancora tolta la sua vigna; è ancora lì. 
E anche oggi, Israele è ancora lì. Nonostante tutto quello che ha subito nella sua lunga storia il popolo di Israele è ancora lì. E anche noi siamo ancora lì. Siamo ancora qui, Dio non ci ha ancora abbandonati, siamo ancora coloro che lui ha chiamati alla fede e inviati a praticare la giustizia. Siamo ancora qui e siamo ancora sotto il suo giudizio, perché non facciamo i frutti che Dio vorrebbe da noi. Ma siamo ancora qui e siamo ancora davanti a Dio.
Con linguaggio giuridico, potremmo dire: il giudizio è stato emesso, ma la sentenza non è ancora stata eseguita. 
Siamo qui in questo presente in cui il giudizio è stato emesso ma non ancora eseguito. È il tempo dell’ascolto e della possibile conversione. Il giudizio è sempre appello, è sempre invito a tornare a Dio, c’è un tempo in cui possiamo ancora ascoltare e riconoscere che Dio ha ragione, che il suo giudizio è giusto.
Le parole di giudizio ci fanno paura non vorremmo sentirle, perché il giudizio di Dio dice la verità su di noi. Ma senza giudizio non c’è verità e senza verità non c’è grazia. E dunque senza giudizio non c’è grazia. Perché Dio è misericordioso, ma è anche giusto. E come ha scritto Paolo Ricca commentando il Catechismo di Heidelberg, “solo Dio riesce ad essere al tempo stesso misericordioso e giusto” (p. 40).
Dio non passa sopra all’uva marcia della sua vigna, non può fare finta che sia uva buona. Dio non passa sopra alle nostre ingiustizie, non può fare finta che non ci siano, che noi non le abbiamo commesse. Quindi va ad accusare la sua vigna che non fa quello che dovrebbe fare. Questo fa il Dio giusto, che è anche il Dio misericordioso, ma che è anche il Dio giusto che non tollera l’ingiustizia.
C’è una buona notizia in questo brano di giudizio? La buona notizia c’è, ed è che Dio va a parlare alla sua vigna prima di abbandonarla, va a parlare al suo popolo prima di abbandonarlo, va a parlare al suo popolo che lo ha abbandonato, prima di lasciarlo andare al destino che si è scelto.
No, proprio spargimenti di sangue e grida di angoscia Dio non li tollera. Ma il suo popolo è ancora in tempo per estirpare l’ingiustizia, la vigna è ancora in tempo per tornare a produrre uva prelibata. 
Per fare questo bisogna tornare a Dio. Il giudizio è il modo in cui Dio viene a cercarci quando è deluso di noi, dalla nostra ingiustizia. Per vincere l’ingiustizia bisogna tornare a Dio, e Dio è lì che ci aspetta, anzi è venuto lui a cercarci, perché anche il giudizio è un modo in cui Dio viene a cercarci. 
È davvero il canto di un amore deluso, non d un uomo per una donna, ma di Dio per il suo popolo, per noi. È amore deluso, ma è amore. Per questo Dio viene a cercarci. Anche quando è deluso viene a cercarci e lo fa solo per amore. 

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