citazione da: D la Repubblica delle Donne
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Il corpo indietro
C'è un istante, impercettibile ma definitivo, che ci fa passare da un'idea di sé (giovane, desiderabile) a un'altra (matura, invisibile). Iaia Caputo riflette su come "accordarci" con il tempo che passa. Senza perdersi
Posso senz'altro dire che comincio a invecchiare. Naturalmente, come tutti, non lo desideravo affatto, ma questo non basta a spiegare il perché non me l'aspettassi, e neppure la sorpresa, l'incredulità con le quali ho accolto i primi indizi di questa evidenza. E neanche riesco a dire che l'ho capito che invecchiavo - i primi cambiamenti sono così impercettibili che si notano appena, ci permettono persino di vederci dentro come si è sempre stati - si tratta piuttosto di un sentire del corpo che, nato da un'inezia, si trasforma in un gelatinoso presentimento, in un brivido, meglio, in una vertigine. Beh, comincia la discesa, se soffri di vuoti d'aria sei perduta. A me è capitato che avevo da poco compiuto quarant'anni: ho provato a infilare un ago, come tante altre volte, e non ci sono riuscita; banalmente cominciavo a diventare presbite. Ho pensato, per la prima volta: non ci posso fare niente. Mi ero accorta improvvisamente non solo di non vedere più perfettamente, ma soprattutto di aver visto benissimo per quattro decenni e di non avervi dato nessuna importanza.
D'altra parte, cos'è la giovinezza se non quell'età della vita che attraversiamo con la presunzione arrogante dell'eternità? Uno spreco, uno sperpero, un tempo che non si sa, destinato al ricordo. Insomma, ho avvertito uno strappo. Se il tempo, fino a quel momento, sapevo coniugarlo solo al presente e al futuro, ora cominciavo ad assaporare il gusto ancora sconosciuto della nostalgia, quel sentimento che fa della nostra vita un cammino ricurvo, una linea che procede in avanti solo perché c'è qualcosa che l'attende nel passato.
Poi è successo ancora. Ho capito che stavo invecchiando la prima volta che ho rivisto Il laureato, e non tifavo più per la dolce, verginale e giovanissima (ahi) Elaine, mi identificavo invece nella nevrotica, infelicissima e disperatamente sexy signora Robinson. Come avevo fatto, vent'anni fa, a non accorgermi di quanto fosse bella Anne Bancroft? La prima volta che non ho capito una pubblicità televisiva. La prima volta che un ragazzo mi ha ceduto il posto in autobus.
La prima volta che di un ragazzo, in autobus, ho pensato quanto fosse maleducato. La prima volta che uno dei miei figli si dimenava sulle note di una musica a me sconosciuta. La prima volta che uno dei miei figli ha detto: "Che roba è?" di una musica da me conosciuta. Dieci o vent'anni fa la musica era la mia musica. Rolling Stones, Beatles, David Bowie, l'Equipe 84, Lucio Battisti. Come ha scritto Luca Doninelli: "Il mondo era un mare e quella era l'onda, ed era la nostra onda. È così che passa il tempo. Non è meticoloso, il tempo, piuttosto corre a ondate. Viene il giorno in cui c'è una nuova onda, su Mtv o da qualche altra parte, che si chiama Chemical Brothers, e semplicemente, non è più la tua".
Il tempo si muove e noi restiamo indietro.
Con una libertà sconosciuta alle altre generazioni.
Per ora mi è impossibile non proiettare su questo futuro prossimo un interrogativo: una lunga vita significherà anche una buona vita? Cioè ancora intrisa di senso, decifrabile e rintracciabile in una salute decente, negli affetti delle relazioni e dello scambio, in una mente lucida che abiti un corpo né umiliato né perennemente richiedente, in una situazione economica che garantisca l'autonomia se non ancora qualche piccolo piacere? E quali saranno i pensieri, le idee di questi anziani mossi da una farmacologica smania di fare? A questa protratta durata dei corpi corrisponderà quell'attitudine immaginativa che si nutre di futuro, di attese, di speranze? O saranno, saremo, piuttosto condannati a sentirci più a lungo fuori tempo, fuori posto, fuori luogo? In una parola spaesati dentro noi stessi?
Quel che invece è gia accaduto è che è sempre più forte lo scollamento tra come ci si percepisce (dentro) e come si è fuori, tra il proprio sé più profondo e l'età anagrafica che è data dal corpo, dall'altrui percezione, dall'oggettività del tempo trascorso su di noi e insieme a noi. Da questo punto di vista la definizione che una volta Simone de Beauvoir diede della terza età, "Essere vecchi significa non avere più progetti", appare del tutto superata. Perché oggi invece è possibile essere anziani e persino vecchi e averli ancora dei progetti, magari piccoli, a breve termine, ma averli: un viaggio, uno studio, una passione trascurata in anni affollati di impegni e responsabilità, sempre più spesso un'attività professionale. Mia nonna alla mia età (mi mancano tre anni ai cinquanta) era considerata una donna anziana, mia madre era già diventata nonna, io invece ho ancora un figlio che frequenta la scuola elementare, un'aspettativa di vita di pochi anni inferiore alla mia età attuale, un'attesa pensionistica vicina allo zero che è una prospettiva che vivifica i sogni, mobilita i progetti e aguzza la fantasia.
Non sorprenderei nessuno se cambiassi lavoro o m'imbarcassi in una nuova impresa, se mi trasferissi a vivere in Brasile o in un dammuso delle Eolie. Né verrei giudicata bovarystica se mi innamorassi di nuovo, se mi sposassi ancora...
Ed è vero che ciascuno invecchia a suo modo, che nessuno ha più come modelli padri e madri o chiunque l'abbia preceduto, per i quali l'invecchiamento fisico e quello psicologico coincidevano e s'incastravano in un perfetto meccanismo tra il dentro e il fuori, tra la percezione personale e la considerazione sociale, tra attese intime e conferme pubbliche, tra fantasia e realtà. In questo tempo di identità mutanti, il corpo, che è il luogo dell'identità, è diventato lo spazio della sperimentazione, la dimora di ogni crisi, la sede di tutte le nostre molteplici trasformazioni. Questo coincide con una fatica, ma prospetta anche un'inedita libertà: ogni giro di boa, i quaranta, i cinquanta, per quel che vedo intorno a me persino i sessanta e i settant'anni aprono davanti a noi una gamma più o meno ampia di possibilità.
Ciascuno sceglie come interpretarli, di quali esperienze connotarli, con che passo viverli. Ma in questa vita fatta a tessere, più che mai quella delle donne, l'arrivo dei cinquant'anni disegna una crepa non dissimile da quella provocata dalle scosse telluriche sulla crosta terrestre: magari l'esistenza procede su binari già tracciati, non assistiamo a uno stravolgimento, eppure quella linea segnata dal tempo seppure non riusciamo ancora a vederla la sentiamo su di noi, e i pezzi del mosaico della nostra identità a puzzle sembra che non ne vogliano più sapere di stare al loro posto. La biologia con noi è impietosa: i grandi avvenimenti della vita come il passaggio dall'infanzia all'adolescenza, la nascita dei figli, la fine della vita fertile non sono solo trasformazioni grandiose ma esperienze che avvengono nel corpo. Mestruazioni, parti, menopausa lo definiscono. Lo cambiano. Corrispondono a riti di passaggio. A fasi del tempo. Ma qual è oggi il tempo di una cinquantenne? Com'è sempre stato è anche un tempo di malinconia, di lutto: il termine di una possibilità riproduttiva che coincide con un calo ormonale, con le prime rughe, con una minore elasticità dei tessuti, con l'opacizzazione di tutto quanto fino a un pugno di anni prima ancora riluceva, capelli, pelle, sorriso.
E però mentre questi "cedimenti" e smottamenti si traducono in stanchezza, fragilità, smarrimento, la nostra vita, al contrario di quella biologica, è ancora quella dei trent'anni: uguali le performance che professionalmente ci vengono richieste, ancora molti i traguardi da conquistare, per non parlare dei figli piccoli da crescere che molte di noi, diventate madri dopo i trent'anni, sentono insieme come una sferzata di energia e insieme come fatica inimmaginata. Ciascuna con le tessere che aveva a disposizione si appresta insomma a comporre il mosaico dei suoi cinquant'anni.
Con una libertà sconosciuta alle altre generazioni.
Con nuove opportunità.
http://dweb.repubblica.it/dettaglio/Il-corpo-indietro/31861?
Eppure. Eppure, sentiamo che lo sguardo degli uomini comincia a offuscarsi, si fa distratto, assente. Perché quel che il tempo aggiunge ai maschi - fascino, prestigio, status - a noi, ancora, sottrae. Ci spinge lentamente fuori dal mercato del desiderio. E allora mi chiedo: com'è possibile escludere dal proprio orizzonte il desiderio di un lifting, di due tette nuove che orgogliosamente guardano in alto, di un sorriso abbacinante, di gambe con muscoli guizzanti da maratoneta, insomma perché non dovrei desiderare di fare fuori quello che non solo oggi è ritenuto possibile, ma addirittura doveroso, fare dentro? Mi rifiuterei forse di aggiungere un paio di valvole a un cuore malandato, di sostituire con una protesi l'anca usurata, di trapiantarmi un rene malato o di convivere con una placca di acciaio se una delle mie ossa avesse dato forfait? "Del resto un volto deve mostrare la sua età, se possibile portata bene e legittimamente lenita in qualche danno, ma non mistificata. Mettersi un dente al posto di quello estratto è una cosa, un lifting con ambizioni da Dorian Gray è penoso", ha scritto Claudio Magris. "Il senso della nostra vita è la sua avventura nel tempo, nella storia: il fiorire, ma anche il maturare e il passare di ciò che la Bibbia chiama carne".
Insomma, ciascuno di noi alla fine vale la storia e per la storia che si porta dietro. Ed è un'idea alla quale mi aggrappo come una naufraga al suo tronco. Mi consola credere che la singolarissima, irriproducibile storia di ognuno di noi sia scritta sulla propria faccia, si stratifichi come un racconto, bello o brutto che sia, nel divenire della carne e del corpo. E che tradire quella narrazione sia in fondo tradire, insieme alla nostra natura umana, la storia di chi abbiamo amato e che, incontrandoci un giorno per strada, non potesse riconoscerci né riconoscersi in noi, se non dubitando di se stesso.
(Pubblicato il 12 dicembre 2007)
consultato su internet al sito:
mercoledì 10 settembre 2008, ore 17.00.
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