mercoledì 23 luglio 2008

Teologia per pensare


Gabriella Caramore, La fatica della luce. Confini del religioso, (Il pellicano rosso – nuova serie a cura di Paolo De Benedetti - 76),
Morcelliana, Brescia, 2008, pp. 256;
internet: www.morcelliana.com

dalla quarta di copertina:

L’esperienza religiosa è anche un viaggio: allontanarsi da ciò che è noto verso qualcosa che da un lato attrae, «chiama», dall’altro persiste nella sua lontananza, nel suo enigma. Ma un viaggio è innanzitutto un lavoro su di sé, uno «straniarsi» per esporsi ad altro. Appunto, una «fatica» come quella che si fa «luce» - che dà il titolo a questo libro – per illuminare il mondo. Un percorso lungo i confini, incerti, tra credenti e non credenti, investigando luoghi della Bibbia, eventi della vita, del nascere, del morire e figure del linguaggio e dell’arte. Un libro di domande sul religioso – chi è il Dio sconfitto? cosa significa sperare?, come essere liberi? – poiché, osserva l’autrice, solo nell’ostinazione di questo insonne interrogare si conserva l’umano. Un libro di formazione; un compito sempre da ricominciare, mai concluso.

GABRIELLA CARAMORE è autrice, dal 1993, della trasmissione di cultura religiosa di Radio Tre «Uomini e profeti». Dirige l’omonima collana presso la Morcelliana. Ha curato l’edizione italiana di opere di V. Segalen (Il doppio Rimbaud, Milano 1979), G. Lukács (Diario 1910-11, Milano 1983), Endre Ady (Poesie, Reggio Emilia, 1985), Y. Bonnefoy (L’impossibile e la libertà, Genova 1988; Entroterra, Roma 2004), Sergio Quinzio (Mi ostino a credere, Brescia 2006).


un qualificato commento al libro
è del teologo valdese PAOLO RICCA:

Molti lettori di Riforma conoscono – mi auguro – Gabriella Caramore grazie alla rubrica di Radiotre Uomini e Profeti, che lei dirige da quindici anni, settimana dopo settimana (due trasmissioni: una il sabato mattina, sull’attualità religiosa, intitolata «Domande»; l’altra la domenica mattina, tematica, intitolata «Letture»). Si tratta della migliore trasmissione religiosa diffusa oggi in Italia dai mezzi di comunicazione di massa, pubblici e privati. È anche l’unica sede – ripeto: l’unica – che dia voce alle minoranze religiose presenti nel nostro paese.

Ma perché Uomini e Profeti è una trasmissione così seguita e apprezzata? Perché si occupa di Dio e dell’uomo (non di uno senza l’altro) senza paraocchi confessionali e senza pagare tributi all’Istituzione (ecclesiastica o di altro genere), muovendosi in ampi spazi aperti, liberamente e laicamente, frequentando con amore e rigore i grandi testi religiosi dell’umanità, senza però ignorare o addomesticare sia le grandi domande che da sempre albergano nel cuore dell’uomo, sia quelle che via via emergono dalla storia nella quale siamo immersi. Uomini e Profeti piace perché non confonde Dio con la chiesa (virtù rara nel nostro clericale paese), né la fede con il dogma. Gabriella Caramore, poi, eccelle nell’arte del dialogo, così difficile, così vitale. Sa ascoltare (virtù anche questa rara nel nostro retorico paese) e sa porre le domande scomode ma utili a far avanzare il discorso nella ricerca paziente di una verità che ci supera e al tempo stesso ci attrae e invita a sé, essendo la ricerca stessa un pezzo – se così posso dire – della verità cercata.

Ora è possibile conoscere Gabriella Caramore più da vicino ancora, non solo attraverso l’ascolto della sua trasmissione, ma attraverso le pagine di un libro, intitolato La fatica della luce. Confini del religioso, uscito nell’aprile di quest’anno*. È il suo primo libro, anche se ne ha già curati molti, ma di altri autori. Il titolo – leggiamo nella «Premessa» al volume – è ispirato da un passo dell’Ecclesiaste in cui si dice che «la luce è dolce», ma che «i giorni delle tenebre saranno molti» (11, 7-8), «rendendo manifesta – scrive l’autrice – la fatica che la luce fa per stendersi sul corpo del mondo». Come spiegare questa fatica? È perché le tenebre sono comunque più forti e l’uomo ama le tenebre più della luce e quindi la luce, alla fine, non ce la fa, oppure è perché la luce rinuncia volutamente al suo splendore e si offre a noi smorzata per non abbagliarci e lasciarsi vedere «da quell’impasto di fango e di soffio che è l’essere umano» senza accecarlo? L’autrice pone la domanda, senza fornire la risposta, che spetta semmai al lettore. Sappiamo del resto che una buona domanda avvicina di più alla verità di una risposta improvvisata o di comodo. L’autrice non spiega la fatica della luce, la descrive però benissimo nei cinque capitoli che compongono il volume, impreziosito da quattro tavole a colori sapientemente scelte per dipingere, oltre che descrivere, la fatica della luce, e forse anche per accennare, molto discretamente, alla sua vittoria, come nell’acquarello d’apertura di J. M. W. Turner che raffigura una Venezia che, accarezzata dalla luce mite dell’aurora, emerge come una dea dai vapori delle acque dei suoi canali, o come nella Cena a Emmaus di Rembrandt, dove l’unica luce è un Gesù ormai invisibile, già scomparso («egli sparì d’innanzi a loro», dice l’evangelista Luca), ma la sua luce continua a splendere: Gesù è scomparso, ma la sua luce no, e illumina come di giorno i volti dei discepoli.

Che cos’è questo libro? È una sorta di Simposio del nostro tempo, il cui tema non è l’amore come quello di Platone, ma Dio e l’uomo che si cercano a vicenda. Intorno a questo tema Gabriella Caramore ha per così dire convocato un gran nuvolo di testimoni, da Kierkegaard a Rilke, da Simone Weil a Dag Hammarskjöld, da Hans Jonas a Sergio Quinzio, da Dietrich Bonhoeffer a Emmanuel Lévinas, da Pavel Florenskij a Nelly Sachs, e molti, molti altri – un libro corale, quindi, ma anche molto personale: i testimoni sono tanti, ma il filo del discorso lo tiene in mano l’autrice, e il messaggio complessivo dell’opera reca distintamente la sua impronta. Essa ci guida in un percorso che attraversa «l’insonne interrogare dell’uomo» nella sua ininterrotta ricerca di Dio e di se stesso, «lungo la stessa impervia, dolente, esaltante strada».

Non è possibile riassumere un libro ricco e sostanzioso come questo. Mi limito quindi a mettere in luce quelli che mi sembrano essere i suoi pregi maggiori. (1) Il primo l’ho già detto: la coralità. L’autrice non pensa e non parla da sola, ma in dialogo. L’orizzonte è dilatato, il discorso ha un ampio respiro. (2) Alla qualità elevata della bella scrittura corrisponde la qualità elevata del pensiero: al piacere di leggere si aggiunge così il piacere di pensare insieme all’autrice. (3) Originale è il punto di osservazione da lei scelto per la sua riflessione: «sul confine». Paul Tillich, citato in apertura, lo considerava «il luogo propriamente fecondo della conoscenza». Questo libro lo dimostra. (4) La molteplicità dei linguaggi, alla quale un intero capitolo è dedicato, che si apre con una magnifica meditazione sulla «poesia come preghiera». «Sul confine» tra poesia e preghiera, tra arte e fede, tra letteratura e teologia, ma anche tra parola e silenzio, Gabriella Caramore scopre o istituisce nessi fecondi. (5) Infine, c’è il tema centrale del libro, che è Dio, di cui parla ogni pagina in maniera diretta o indiretta. Gabriella Caramore non fa professione di fede, ma si confronta animatamente con quel «Tu» immancabile in ogni dialogo e in ogni preghiera. Lo fa con grande riguardo, misura, ma anche segreta passione: santifica il nome di Dio senza nominarlo.

E proprio perché Dio, in questo libro, è più approdo finale che presupposto iniziale, più promessa che possesso; proprio perché è, sì, realtà, ma non ovvia, non scontata, non risaputa: è l’Inedito rispetto al quale tutto è vecchio, il Nuovo che nella sua libertà sorprende e stupisce («sono stato trovato da quelli che non mi cercavano» Romani 10, 20) – proprio per questo La fatica della luce (che vuole anche dire: fatica della fede, fatica dell’amore e fatica della speranza, ma l’apostolo Paolo ci ricorda che «la nostra fatica non è vana nel Signore» – I Corinzi 15, 58!) è un libro che può fare del bene a molti, sia a coloro che, rispetto a Dio (e a loro stessi), hanno più domande che certezze (la luce c’è, anche se fa fatica a prevalere), sia a coloro che, rispetto a Dio (e a loro stessi), hanno solo certezze e nessuna domanda (la luce fa fatica a prevalere, anche se c’è).

Infine: il libro è dedicato «ai miei genitori, che avrebbero capito». I genitori di Gabriella Caramore non ci sono più, ma, se ci fossero, capirebbero. È molto bello pensare così i rapporti con i genitori: generazioni diverse che si capiscono.

tratto da: «RIFORMA» settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste, Metodiste, Valdesi
anno XVI - numero 28 - 11 luglio 2008, p. 5.
internet: www.riforma.it

1 commento:

maurizio abbà ha detto...

Gabriella Caramore ascolta la teologia contemporanea
con molta attenzione,
è una delle principali teologhe del nostro tempo.