Natale: una mitologia?
L’avvicinarsi della festività della nascita di Gesù mi offre argomento per alcune osservazioni su questo tema, nel quale scorgo, a mio modo di vedere, importanti percentuali di mitologia. La leggenda del Natale, infatti, è riportata da due evangelisti – Matteo e Luca – ma in modi così divergenti da escludersi a vicenda.
Secondo Matteo la nascita di Gesù avvenne durante l’ultimo anno del regno di Erode il grande, da cui la strage degli innocenti (ne sarebbe stato capace), la fuga in Egitto, ecc. Sempre secondo Matteo, l’annunciazione fu data in sogno a Giuseppe, ultimo discendente della stirpe regale di Davide. Secondo Luca, invece, la nascita avvenne quando la Giudea era già dominio romano (almeno 10 anni dopo) e quindi soggetta al censimento voluto dall’imperatore Ottaviano Augusto. Inoltre, secondo Luca, Giuseppe discenderebbe da una stirpe sacerdotale nella quale compaiono tutt’altri nomi.
Una cronologia esclude l’altra. Ma non basta, perché in entrambe sono presenti elementi mitici: annunciazione angelica a Maria (non a Giuseppe e non in sogno), parto verginale, cori angelici, nascita in una stalla vuota (Luca), adorazione dei Magi guidati da una stella (Matteo) che va a fermarsi sopra la casa (non stalla) della natività. Tutte cose che fanno pensare a «miti di fondazione» come la leggenda di Romolo e Remo per la fondazione di Roma. Infatti le divergenze sopra dette sottraggono attendibilità storica ai racconti della natività e fanno pensare a una leggenda.
La cosa, di per sé, non avrebbe molta importanza (gli evangelisti Marco e Giovanni non ne parlano neppure) poiché quello che conta è il contenuto dell’insegnamento di Gesù, non le circostanze della sua nascita. Stiamo però attenti a non prendere per oro colato tutto ciò che dicono gli evangeli, nei quali, come ho detto, è presente anche una percentuale di mitologia (contraddittoria per di più).
Gradirei sapere se il prof. Ricca condivide o meno le mie osservazioni.Sergio Bilato – Verona
Condivido senz’altro le osservazioni del nostro lettore sulle divergenze notevoli (egli non le elenca neppure tutte!) tra le due tradizioni evangeliche sulla nascita di Gesù, contenute rispettivamente nei capitoli 1 e 2 di Matteo e nei capitoli 1 e 2 di Luca. A questi ultimi bisogna aggiungere la genealogia di Gesù collocata da Luca subito dopo il racconto del battesimo (3, 23-38), mentre in Matteo si trova proprio all’inizio della sua narrazione (1, 1-15): le due genealogie sono anch’esse molto diverse. Concordo anche, almeno in parte, con i dubbi del nostro lettore sulla attendibilità storica di questi «evangeli – o racconti – dell’infanzia» (come vengono chiamati dagli studiosi), non però nel senso di un dubbio radicale su tutto ciò che vi si trova, ma nel senso che in essi «l’interesse teologico domina su quello storico», come scriveva Giovanni Miegge già nel 1951. Questo significa che quei capitoli non mirano tanto a fornire dati storici accurati sulle circostanze e il luogo della nascita di Gesù, quanto piuttosto ad affermare due verità costitutive della fede dei primi cristiani: la prima è l’ascendenza davidica di Gesù, quindi la sua messianicità espressa nell’appellativo «Figlio di Davide» con il quale egli è spesso salutato dalla folla; la seconda è la divinità originaria della sua persona fin dalla nascita, quindi la sua qualità di «Figlio di Dio» (oltre che di Maria), acquisita non dopo il battesimo, o dopo la risurrezione, ma posseduta già nel concepimento.
Il lettore dell’evangelo dovrà dunque cercare in quei capitoli il loro significato teologico piuttosto che l’esattezza storica dei fatti narrati. Condivido infine l’osservazione del nostro lettore secondo cui i «racconti dell’infanzia» contengono alcuni elementi leggendari (egli dice «mitici»), a patto però che in questo caso per «leggenda» non s’intenda semplicemente «cosa inventata, non vera, puro prodotto dell’immaginazione», ma s’intenda l’elaborazione poetica di un fatto storico – la nascita di Gesù – elaborazione che non necessariamente deforma il dato storico, ma può metterne in luce aspetti nascosti. Non condivido invece il giudizio complessivo del nostro lettore sui «racconti dell’infanzia» nei quali egli ravvisa «importanti percentuali di mitologia» – se, come immagino, egli intende con questo termine un puro prodotto della fantasia religiosa dei primi cristiani, privo di qualunque consistenza storica, un «mito di fondazione» come quello di Romolo e Remo.
No, non credo che i «racconti dell’infanzia» siano un mito di fondazione. Perché no? Perché essi contengono almeno tre dati fondamentali sicuramente storici, e niente affatto mitici o leggendari.
(1) Il primo è il fatto che Gesù è nato, cioè «Gesù» non è un nome simbolico creato dalla primissima comunità cristiana per esprimere un suo progetto o una sua speranza, ma è il nome di una persona in carne e ossa, vissuta e morta in Palestina nei primi anni Trenta della nostra era. Ma dove è nato Gesù? Qui le tradizioni evangeliche sono diverse. I «racconti dell’infanzia» lo fanno nascere a Betlemme e questa tradizione non è del tutto priva di plausibilità storica. Ma è più verosimile che Gesù sia nato a Nazareth, indicata da Marco come la sua «patria» (6, 1), cioè, presumibilmente, il suo luogo di origine: lo conferma l’aggettivo «Nazareno» con il quale viene abitualmente chiamato.
(2) Il secondo dato sicuramente storico, e niente affatto mitico o leggendario, contenuto nei «racconti dell’infanzia» è l’identità dei genitori di Gesù: Giuseppe e Maria. Su questo non ci sono dubbi, qui non c’è posto per nessuna invenzione. Non è invece chiaro, nei testi evangelici, la natura della paternità di Giuseppe nei confronti di Gesù. Secondo le due genealogie (su questo sono concordi) si giunge a Gesù attraverso Giuseppe, che quindi è suo «padre». Ma in che senso? In senso fisico? Sembra di no, dato che Maria è costantemente designata come «vergine» o come «ragazza non sposata»: il termine greco ha i due significati, che però, nel quadro della società ebraica di allora, indicano la stessa realtà e implicano entrambi l’assenza di un rapporto sessuale prima della nascita di Gesù. Giuseppe è dunque «padre» di Gesù nel senso di una paternità legale, adottiva, non in quello di una paternità fisica.
(3) Il terzo dato sicuramente storico, e per nulla mitico o leggendario, contenuto nei «racconti dell’infanzia» è l’ebraicità di Gesù. Questi racconti, pur con tutte le loro grosse differenze (hanno però anche alcuni importanti punti in comune), provengono dalle stesso ambiente giudeo-cristiano, e perciò sono pieni di reminiscenze bibliche. Matteo interpreta vari passi dell’Antico Testamento come profezie degli avvenimenti che hanno preceduto e accompagnato la nascita di Gesù (1, 23; 2, 6.15.17); in Luca 1 e 2 invece l’Antico Testamento è presente quasi in ogni riga dei cantici di Maria, di Zaccaria e di Simeone. I due racconti sono quindi fortemente impregnati di spiritualità ebraica e descrivono bene l’ambiente religioso e sociale nel quale Gesù è nato e cresciuto. La sua patria, la Galilea, era malvista dalle autorità romane perché terra politicamente irrequieta, e dalle autorità religiose di Gerusalemme perché semipagana. La famiglia di Gesù però, come il resto della popolazione ebraica della regione, partecipava alle feste e liturgie del Tempio di Gerusalemme e coltivava la pietà degli anawim, i «poveri d’Israele». L’ebraicità di Gesù, fortemente sottolineata dai «racconti dell’infanzia», è fondamentale per capire la sua missione e la sua persona.
C’è dunque molta storia in questi racconti, ma c’è anche molta teologia e molta poesia. La teologia l’ho già indicata: annunciare che Gesù è il Figlio di Davide e come tale il Messia (Matteo), e che è «concepito di Spirito santo» e come tale Figlio di Dio (Luca). In fondo, i due racconti dell’infanzia non dicono altro che quello che dirà l’intera narrazione evangelica e che diranno Paolo (Romani 1, 3: Gesù Figlio di Davide) e Giovanni (Gesù Figlio di Dio). Ma lo dicono all’inizio, quasi come preludio o ouverture dell’evangelo, raccontando il fatto storico della nascita di Gesù in forme poetiche e con finalità teologiche. Non parlerei dunque di «mitologia», ma di teologia e poesia intrecciate a un nucleo storico fondamentale.
Giustamente il nostro lettore osserva che gli evangelisti Marco e Giovanni non parlano della nascita di Gesù. Per Marco l’evangelo comincia non con la nascita, ma con il battesimo di Gesù nel Giordano (1, 9-11). Giovanni si limita a dichiarare che «la Parola è stata fatta carne», senza precisare né come né dove. Nella sua narrazione, Maria compare per la prima volta alle nozze di Cana, al capitolo 2: il fatto di aver dato alla luce Gesù viene totalmente ignorato. Perché questo doppio silenzio? La ragione principale sembra essere questa: per quanto fondamentale, la nascita di Gesù non è, di per sé, un atto salvifico. Sono la sua morte e la sua risurrezione che salvano, non la sua nascita. Anche l’apostolo Paolo non dà alcun rilievo e non attribuisce alcun significato particolare alla nascita di Gesù, che egli menziona una sola volta, en passant, nella lettera ai Galati, dove parla di Gesù «nato da donna» (4, 4). L’importanza che la festa del Natale ha acquistato nel culto e nella pietà cristiana e che continua a mantenere anche nel nostro tempo così largamente secolarizzato, è sproporzionata rispetto al posto che la nascita di Gesù occupa nel Nuovo Testamento.
Del resto, come è noto, i primi cristiani non festeggiavano il Natale, anche perché né Matteo né Luca ci permettono di stabilire la data di nascita di Gesù. L’indicazione di Luca secondo cui, nella notte in cui Gesù nacque, dei pastori «stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge», supponendo che sia attendibile, fa pensare a un periodo che va da marzo-aprile fino a novembre. Altre indicazioni non ci sono. Anche questo dimostra lo scarso interesse dei primi cristiani per la nascita di Gesù. Per loro, l’unico «giorno del Signore» era la domenica, cioè il giorno della risurrezione, non quello della nascita.
Ma allora, come mai è nato (tardivamente) il Natale? E perché è stato fissato al 25 dicembre? A queste domande risponde un volumetto del prof. Oscar Cullmann apparso nel lontano 1947, intitolato Il Natale nella chiesa antica e pubblicato in versione italiana curata dal pastore Franco Sommani già nel 1948. Eccone i dati essenziali.
[a] La prima traccia di una celebrazione del Natale di cui ci sia pervenuta notizia si trova nell’ambito di una scuola cristiana gnostica (quindi non ortodossa), quella di Basilide, fiorita dal 120 al 140 dopo Cristo. Il 6 gennaio di ogni anno Basilide e i suoi seguaci festeggiavano non già la nascita di Gesù, bensì il suo battesimo, nel quale ebbe luogo la sua «manifestazione» o «apparizione» come «Figlio di Dio», essendo così chiamato, e quindi costituito, dalla voce celeste. «Apparizione» in greco si dice epifanéia, da cui proviene il termine epifania, che cade appunto il 6 gennaio. Ma perché il 6 gennaio? Perché il quel giorno aveva luogo una festa pagana del dio Eone figlio della vergine Kore, collegata anche ai poteri speciali attribuiti alle acque del Nilo. Basilide volle sostituire la feste pagana con una festa cristiana: il vero Figlio di Dio, Cristo, manifestato come tale al battesimo, al posto del dio Eone, e le acque del giordano al posto di quelle del Nilo.
[b] La Chiesa d’Oriente, pur condannando Basilide per le sue dottrine gnostiche, adottò la sua festa, abbinando però alla memoria del battesimo di Gesù anche quella della sua nascita: questa si celebrava nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, mentre il giorno 6 si celebrava il battesimo. Possediamo una liturgia del Natale (nascita e battesimo) dell’inizio del IV secolo.
[c] Dall’Oriente la festa del Natale si spostò in Occidente, e qui la festa della nascita venne fissata il 25 dicembre, dissociandola da quella del battesimo che continuò a essere celebrata il 6 gennaio. Perché il 25 dicembre? Per la stessa ragione per la quale Basilide aveva scelto il 6 gennaio per celebrare il battesimo di Gesù, e cioè per sostituire una festa pagana. Qui la festa era quella del dio Sole, cara – sembra – tra gli altri all’imperatore Costantino, che la cristianizzò sostituendo il dio Sole con il «vero sole», Cristo. La festa del dio Sole era celebrata il 25 dicembre, ed ecco perché il nostro Natale cade in quella data.
Come si vede, la storia della festa di Natale è piuttosto complessa, per non dire complicata. Il racconto evangelico del Natale è invece limpido, lineare (nelle due diverse versioni di Matteo e di Luca), e straordinariamente bello, di una bellezza non solo poetica, ma spirituale. Per questo il Natale è diventato la festa cristiana più amata e più universalmente celebrata di tutte. È anche, ahimé, la più mondanizzata. Questo però non è un motivo sufficiente per non celebrarla, è piuttosto un motivo per celebrarla bene, cioè in semplicità d’animo e consapevolezza di fede, conservando la capacità di stupirci davanti alla grandezza di Dio diventato per amore nostro così piccolo (le sue vie non sono le nostre vie) e cercando di festeggiare non noi stessi (i nostri affetti, la gioia di rivedersi, riabbracciarsi e trascorrere insieme bei momenti conviviali), ma Gesù che è venuto a cercarci, per essere lui la via della nostra vita.
Tratto dalla rubrica Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma del 19 dicembre 2008
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