Cordiale invito
Martedì 9 dicembre 2008
alle ore 17,30
presso il Salone del Vescovado di Aosta
sarà presentato il libro
Dissidenza religiosa e Riforma protestante in Valle d'Aosta
di Leo Sandro Di Tommaso
Dopo l'accoglienza e il saluto
Sua Ecc.za Mons. Giuseppe Anfossi, Vescovo di Aosta
interverranno
Don Paolo Papone autore della Postfazione al volume
il Pastore Valdese Alfredo Berlendis
e il Pastore Francesco Mosca, della Chiesa Avventista
info: 347.0957191
www.rogersarteur.com
editor@rogersarteur.com
Questo lavoro si occupa soprattutto della storia della Riforma in Valle d’Aosta, che, nonostante le somiglianze con le vicende piemontesi, ha una specificità che non permette di assimilarla semplicemente ad esse, come ha fatto qualche studioso, anche illustre, del passato .
Infatti la Riforma in questo territorio si manifestò prevalentemente, con alcune vistose eccezioni relative alle parrocchie divenute luterane, come silenziosa adesione e duratura resistenza di circa settanta anni e come esplosione inaspettata rispetto alla fisionomia religiosa della popolazione, del clero e dell’aristocrazia.
Per questo essa si presenta a prima vista come un fenomeno apparentemente inspiegabile, un’isola nel mare magnum della tradizione cattolica, un periodo eccezionale.
Inoltre occorre dire che, sebbene non si sia mai “instaurata” una Riforma in Valle d’Aosta, le adesioni segrete o pubbliche al luteranesimo serpeggiarono tra le file del clero e del popolo con vigore ed estensione tali da preoccupare moltissimo le autorità, inducendole a intervenire drasticamente.
Potremmo paragonare la storia religiosa della Valle d’Aosta dall’alto Medio Evo alla Controriforma a un trittico che vede al centro incunearsi questo settantennio inopinato, mentre ai quadri laterali si situano due lunghi periodi di ortodossia, in cui, prima e dopo la Riforma, l’unica o quasi manifestazione di devianza fu la stregoneria.
La prima parte di questa ricerca rivela che questa zona importantissima delle Alpi ha presentato un assetto politico ed ecclesiastico che può forse spiegare, da un lato, la sua immunizzazione dalle eresie vere e proprie, e, dall’altro, un tipo di devianza religiosa che è tradizionale in zone simili alla Valle d’Aosta.
Per questo ho pensato che l’analisi della storia religiosa valdostana anteriore alla Riforma dovesse comprendere, oltre a un’indagine sul particolare intreccio tra storia ecclesiastica e storia politica, un’inchiesta sul movimento valdese medievale, poiché il valdismo e il catarismo rappresentano la punta più avanzata e significativa della contestazione religiosa a partire dal XII secolo.
Tale raffronto consente di capire come il territorio valdostano, diversamente dalle zone contigue e da altre plaghe con strutture socio-economiche simili, sia stato impenetrabile ai movimenti ereticali più significativi.
L’inchiesta sul valdismo medievale si basa sul confronto delle tipologie processuali relative, da una parte, alla stregoneria e, dall’altra, all’eresia, sebbene la stregoneria comprenda anche la condanna per eresia, in riferimento al patto con Satana, e sebbene la valdesia sia stata a un certo punto sinonimo di stregoneria.
Questa parte introduttiva, quindi, costituisce il necessario background di tutta la vicenda valdostana della devianza religiosa dalla stregoneria del secolo XV alla Riforma luterana e calvinista, dalla repressione della Riforma alla Controriforma, con la conseguente chiusura della Valle d’Aosta all’apporto del pensiero e della cultura europea fino alla metà del XIX secolo, dalla nuova successiva ondata di processi per stregoneria alla nascita e al modesto ma tenace radicamento del valdismo ottonovecentesco in questa regione .
Stando almeno alle fonti finora disponibili, due assenze colpiscono subito chi osservi attentamente questo quadro di riferimento: nel territorio valdostano non vi sono stati né sintomi che facciano pensare a un movimento riformatore “ortodosso”, coevo alla cosiddetta “riforma gregoriana” (910-1122), né tracce di movimenti ereticali, soprattutto del catarismo e del valdismo, eresie prìncipi, ampiamente presenti sia in aree rurali sia soprattutto nelle città al di là e al di qua delle Alpi e, tra le Alpi stesse, in zone anche agricole .
Questa è la prima sorpresa, anche perché movimenti di tal genere sono apparsi, come avremo modo di osservare, in località non così lontane dalla Valle d’Aosta. Infatti il catarismo era già vivo e operante nel XII secolo nell’intera valle del Po, in molte altre zone anche dell’Italia centrale, in Germania (che, secondo qualche storico, sembra essere stata la sua culla ), in molte plaghe della Francia, ma soprattutto nel sud, zona di vasto e profondo radicamento.
Il valdismo, poi, dalla fine del XII e poi a partire dal XIII secolo, da Lione si era diffuso a macchia di leopardo, dopo il breve periodo in cui si era manifestato come movimento di rinnovamento all’interno della chiesa romana, non solo nelle stesse zone in cui operavano i catari, ma anche in territori diversi sia dell’Italia sia dell’Europa.
Queste due assenze (nel mio lavoro non tratto del catarismo, anche se indirettamente l’inchiesta che conduco dimostra che era assente anch’esso) sono comunque in rapporto tra loro poiché la chiesa di Roma, che aveva accettato movimenti di protesta popolare – quale, per esempio, la Pataria milanese –, ritenuta conclusa la sua azione riformatrice con il concordato di Worms del 1122, richiese il titulus (cioè la qualifica specifica di chierico: diacono, prete, vescovo, ecc.) sia per l’esercizio del ministero della parola, sia per le azioni pratiche contro i preti simoniaci o concubinari. Per questo man mano i Patari e altri gruppi confluirono in gran parte nei nuovi movimenti ereticali, quale quello valdese o quello degli Umiliati.
Quindi l’assenza in Valle d’Aosta di movimenti ereticali, a partire dalla fine del XII secolo e soprattutto nel corso dei secoli XIII, XIV e XV, forse può essere spiegata anche con il precedente vuoto di iniziative di riforma in linea con l’azione papale.
Naturalmente occorrerà studiare e analizzare questo primo vuoto, cercando anche di trovarne la ragione: questo sarà uno dei compiti del presente lavoro.
Ma la Valle d’Aosta non mancò all’appuntamento della Riforma: anzi – ed ecco la seconda sorpresa – intorno agli anni Venti del Cinquecento, cioè in esatta coincidenza con l’inizio della Riforma di Lutero, l’intero territorio valdostano fu attraversato, in modo non dissimile dalle zone vicine della Savoia, del Piemonte, della Francia e della Svizzera, da un vero vento riformatore.
Non si può non rimanere sconcertati nell’osservare come in una zona in cui, fino alle soglie del 1500, la devianza religiosa si era manifestata esclusivamente come stregoneria e che in seguito ancora si manifesterà in forme simili, all’improvviso e contrariamente a tutto quel suo passato “ortodosso”, esploda la Riforma protestante che, serpeggiando e penetrando tra le file del clero, tra i nobili, tra il ristretto ceto borghese e tra il popolo, conquistò ampi consensi, protraendosi a lungo nonostante la dura repressione.
Questo fatto rende specifica la Riforma in Valle d’Aosta, dandole caratteristiche che non si vedono e che si appiattiscono se si inserisce questa fase della storia valdostana nell’ambito della Riforma in Piemonte.
Questo non toglie nulla al fatto che i fermenti e i movimenti, gli uomini e le idee che si manifestarono in Piemonte siano stati più rilevanti, tanto più che si espressero anche con scritti e personaggi di indiscusso valore, con eventi di grande portata, come l’adesione alla Riforma delle popolazioni delle tre valli valdesi: si vuole solo dire che la Valle d’Aosta ebbe una sua specificità che va salvaguardata e non va confusa con quelle di altre zone.
Ci si può anche chiedere se la straordinaria adesione alla Riforma per un territorio molto “ortodosso”, quale quello valdostano, possa rimettere in discussione tutto l’apparato storico-ideologico edificato per spiegare, in modi anche opposti, il periodo che va dall’XI al XVI secolo.Non so se il presente lavoro darà una risposta valida ed esaustiva a questa domanda, anche se si propone di farlo: dico solo che gli studi finora esistenti sulla Riforma protestante in Valle d’Aosta non hanno esaminato la questione nel suo complesso, hanno minimizzato o negato, contro le stesse fonti, il luteranesimo, confondendolo anacronisticamente con il calvinismo, autorizzati dalla falsificazione di un documento avvenuta durante l’episcopato di Martini (1611-1621), e infine e soprattutto, hanno dato ragione degli eventi partendo soltanto dal punto di osservazione della Controriforma.
È interessante notare come le fonti stesse non tendano a minimizzare il fenomeno: anzi, attribuiscono il rigoglio della Riforma in Valle d’Aosta soprattutto a una sorta di tradimento del clero, che si manifestava nella perversa abitudine della commenda nelle parrocchie, nelle stesse comunità monastiche e nei due capitoli cittadini, nelle lunghe assenze episcopali, sia per sede vacante sia per incarichi politici dei titolari dell’episcopato, e nel lassismo liturgico che spesso faceva registrare sia l’assenza di libri per i riti sia del tabernacolo eucaristico nelle chiese; insomma, nello stato di generale abbandono del ministero da parte del clero.
L’insieme di tutte queste carenze, ma soprattutto la loro lunga durata, contribuì a incancrenire la situazione, creando in molti elementi del clero, in alcuni aristocratici, in taluni notabili e nel popolo, il desiderio di rinnovamento: il malcontento sfociò in volontà di “changer religion”, come si esprime il vescovo storico Duc.
Vedremo comunque che altre ragioni, altre forze, e in particolare la nuova situazione “aperta” del territorio valdostano, contribuirono alla fioritura della Riforma.
Riguardo alla critica del taglio storiografico controriformista, cui accennavo in precedenza, dichiaro che la mia non vuole essere una condanna: sarebbe da stolti non contestualizzare gli studi storici di qualunque periodo, come lo è non contestualizzare gli eventi storici in generale.
Oggi, poi, possiamo capire la radice profonda di quella storiografia, che in parte si giustifica con il silenzio dei protagonisti protestanti. Facendo, infatti, riferimento all’evento più consistente in termini cronologici e numerici, quale fu la diffusione del luteranesimo dagli anni Venti del Cinquecento alla morte del vescovo Ginod, avvenuta il 26 febbraio 1592, si può notare che solo le istituzioni e alcune figure importanti di parte cattolica hanno lasciato una messe di testimonianze ancora oggi largamente note. Anzi, lo scenario in cui si mossero istituzioni e leader non solo sono conosciuti ma talora sono stati mitizzati con la ricostruzione di un processo che, oltre a configurarsi come marcia trionfale del cattolicesimo, alla fine consolidò – come vedremo parlando del Conseil des Commis – lo stesso assetto politico valdostano che – oggi lo si può dire – fu tutto a favore degli interessi delle classi dirigenti, compresa la scelta di non accostarsi ai cantoni elvetici: un’occasione storica unica, mancata.
Al contrario, di fronte a tale mole di testimonianze di parte cattolica, per la parte riformata le figure importanti, provenienti dalle file del clero, dell’aristocrazia e dello sparuto ceto borghese, appaiono solo come un elenco di persone dai contorni imprecisi, mentre degli appartenenti agli strati popolari ben poco si sa al di fuori delle testimonianze che ne parlano come di un numero consistente.
Questa parte non ha lasciato documenti scritti, per cui l'analisi dovrà cercare di svelare, oltre il silenzio dei vinti, fatti e circostanze almeno probabili, desumendoli proprio dalle ricostruzioni storiografiche di parte e quasi scavandone le fondamenta.
Altra questione di rilievo è quella delle narrazioni e ricostruzioni sulla presenza di Calvino in Valle d’Aosta, su cui si sono esercitati in passato storici ed eruditi cattolici e protestanti: in questo libro il problema sarà affrontato a partire dalla prima timida apparizione dell’aggettivo “Calvinium” al posto di “Lutheranum” nella copia “B” del Catalogus di Jean-Ludovic Vaudan (o Voudan, come lo stesso autore scrive talora il suo cognome). L’analisi della fonte vaudaniana cercherà di far luce sui motivi che possono aver spinto a correggere i testi originari, adattandoli alla costruzione della leggenda alla quale non credeva neppure Jean-Baptiste de Tillier.
Mentre la lunga durata dell’adesione alla Riforma è indice significativo di strenua resistenza, la vicenda dei protagonisti della Controriforma in Valle d’Aosta presenta un groviglio di intrecci politico-religiosi che la rendono, al suo interno, contraddittoria se non addirittura cangiante a seconda dei vari personaggi che si susseguono sulla scena politico-ecclesiastica valdostana.
Sarà proprio questo intreccio, insieme con il continuo rimando alla folla quasi anonima dei protestanti valdostani, a dare il taglio alla mia trattazione. La quale, quindi, si presenta strutturata con continui interscambi che cercano di restituire al lettore la dialettica tra la politica e la religione dei potenti, che spesso si scambiavano le parti, e quello che si riesce a intravedere della fede di coloro che volevano un cambiamento.
Questa impostazione non credo sia dissimile dalle storie della Riforma finora note, sebbene esse trattino anche gli aspetti più propriamente teologici; ma altrove i riformatori scrissero opere, dibatterono problemi, presero decisioni; elementi che, come si è detto, non si ritrovano nel pur vasto e radicato movimento riformatore valdostano.
Ma questa modesta storia di una Riforma “regionale” intende soltanto e semplicemente riflettere sulle peculiarità del movimento riformatore così come si manifestò in questo territorio.
Leo Sandro Di Tommaso
PREFAZIONE di Giuseppe Sergi
Dagli antichi insegnamenti universitari verso cui dimostra generosa gratitudine, Leo Sandro Di Tommaso avrebbe dovuto trarre due divieti: non occuparsi della regione che abita e, neppure, di temi che potessero sfiorare le scelte personali di fede. A molti sembrerà improponibile, ma lo storico perfetto è quello che prova il massimo disinteresse per l’oggetto delle sue ricerche. Invece l’autore di questo libro, dalla tesi di laurea fino ad anni recenti, non ha evitato quei terreni potenzialmente minati. Credo che l’abbia saputo fare nel modo più corretto e rigoroso possibile proprio perché consapevole della necessità di esorcizzare inclinazioni individuali e ambientali attivando, in più, una procedura che può dare frutti: la dialettica culturale fra individuo e ambiente.
Alla solida formazione filologica, alla scrupolosa propensione all’accertamento sistematico delle fonti e dei fatti, Di Tommaso ha infatti sempre aggiunto una positiva “cultura del sospetto”: sospetto verso ciò che si è sempre ripetitivamente affermato; sospetto verso sistemi di valori acriticamente condivisi; sospetto, soprattutto, verso l’uso pubblico e politico della storia.
Dunque l’autore di questo libro non è stato drastico nell’attenersi agli imperativi qui ricordati all’inizio, ma in un certo senso ne ha sempre mantenuto lo spirito. Come molti suoi colleghi (insegnanti e bibliotecari, archivisti e operatori culturali) ha dato e continua a dare all’Università la sensazione di essere utile in un modo diverso dal semplice conferimento delle lauree: con fili che non si interrompono, tratti di percorsi comuni fra docenti ed ex-allievi, produzione di ricerche che possono, senza affatto sfigurare, essere pubblicate in periodici scientifici.
Le pagine che seguono non sono tuttavia esito di una semplice applicazione di tecniche storiografiche imparate e progressivamente affinate. Sono il frutto di un metodo reso articolato e complesso da una ricerca personale di equilibrio fra schedatura delle fonti e stimoli delle proprie letture, non sempre erudite e non necessariamente specifiche. C’è, in questo, una trasparenza di cui può giovarsi il lettore, che invece di trovarsi alla prese con note adatte solo a iniziati, trova anche citazioni di Friedrich Engels e di Marc Bloch, antiche questioni della grande storia, poste dal primo, e conclusioni rimaste insuperate, raggiunte dal secondo.
Tre sono le domande a cui il libro intende rispondere: ci sono stati preannunci del movimento riformatore in Valle d’Aosta? Quali caratteri ha avuto questo movimento fra i secoli XV e XVII? Se non si hanno prove del passaggio di Calvino in valle, perché la sua presenza è entrata a far parte di una sorta di mito fondativo della regione?
La prima domanda ha dato luogo a un consistente numero di pagine dedicate al medioevo, dal secolo XI al XIV. Troviamo due nozioni di ortodossia: quella romana - sviluppata dalla riforma gregoriana del secolo XI - e quella della ricerca dottrinale da parte di movimenti di fedeli che antepongono la perfezione all’obbedienza, l’ansia di salvezza all’accettazione di compromessi istituzionali: e di questi movimenti la Valle d’Aosta sembra priva. Prima l’assenza di mobilitazioni pauperistiche assimilabili alla Pataria lombarda, poi l’agire convergente di poteri laici ed ecclesiastici, spiegano una lettura tutta in chiave di stregoneria di tutte le manifestazioni ereticali che dovevano essere perseguite: trasmesse dalle fonti, dunque, non come fermenti religiosi, bensì come vere e proprie forme di devianza. Nel Quattrocento valdostano - secondo uno schema reperibile anche nella Svizzera Romanda e in Savoia - la definizione “valdese” non aveva valore specifico, ma era applicata a presunte attività stregonesche.
Di Tommaso compie un’indagine iniziale, su più di quattro secoli, senza cedere alla tentazione di cercare sviluppi unidirezionali. Si è attenuto a una redditizia procedura: individuare campi cronologici posti, sì, in successione, ma valorizzati soprattutto per allargare volta per volta il contesto, mai esclusivamente valdostano e, al tempo stesso, mai desunto passivamente dalla storia generale. Dà il giusto peso a un diminuito interesse sabaudo, dopo Umberto III, per i poli ecclesiastici dell’abbazia di St.-Maurice-d’Agaune e della sede vescovile di Aosta, che hanno in parte perduto il precedente ruolo di radicamento e di legittimazione. Rileva, sul piano della vita associata e dei rapporti fra nobiltà e ceto mercantile, un adeguamento valdostano alla temperie sociale complessiva (in particolare del regno italico) con almeno mezzo secolo di ritardo. Valorizza giustamente alcuni decenni che la migliore ricerca sul dissenso religioso ha individuati come cruciali: quelli compresi fra il Dictatus Papae di Gregorio VII (1075) e il concordato di Worms del 1122, aiutandoci a ricordare che non bisogna essere precipitosi nel sovrapporre l’affermazione del centralismo romano e la lotta per le investiture.
Nel Trecento la Valle d’Aosta non era stata neppure luogo di rifugio per i Dolciniani, e questa constazione accompagna l’autore verso la seconda domanda e verso la parte centrale del suo lavoro: dall’assenza di preannunci medievali di dissidenza religiosa alle espressioni locali della Riforma e della Controriforma nella prima età moderna. Non è una semplice successione cronologica: quell’assenza spiega alcuni caratteri della riforma valdostana e del suo superamento. Il successo della nuova predicazione fu immediato e notevole, forse per la grande quantità di diritti politici in mano alle chiese, sicuramente perché i fedeli lamentavano l’assenteismo dal lavoro pastorale di molti chierici, impegnati a occuparsi dei proventi delle cariche ecclesiastiche assegnate per commenda. Il quadro socio-politico del Cinquecento valdostano appare cristallizzato, carente di borghesia e saldo nel suo inquadramento entro il principato sabaudo: non solo non ci sono le condizioni per l’importazione di un modello cantonale di tipo elvetico, ma la fortuna iniziale della riforma non si può attribuire a ‘responsabilità’ esterne, secondo un’ispirazione “gallicana”, bensì a predicazioni provenienti dal mondo stesso dei fratres cattolici, in particolare da Ivrea.
Di Tommaso - grazie anche alla sua capacità di tener conto, insieme, di uno “scenario geo-politico” non limitato alla valle ma anche di valutare le specifiche attestazioni locali - ci introduce al tema della gradualità e della provvisorietà. Parrocchie che passano “a una forma di luteranesimo” testimoniano di fasi in cui non si sta da una parte o dall’altra, in cui non ci sono repentine conversioni di massa, in cui si sperimentano forme di vita religiosa in cui sono ampie le aree grigie fra due diverse concezioni dell’ortodossia. Poi, a metà del Cinquecento, i protestanti valdostani si rifugiano nel silenzio, e da lì al primo Seicento la Controriforma non si limita a un’azione di recupero, conduce una vera lotta, con poteri coordinati fra loro perché il contesto regionale lo consente: il vescovo Pietro Gazino, il visconte René de Challant, il duca Emanuele Filiberto. Si costruisce la “cittadella della cattolicità” che funge da barriera, interrompendo i suoi rapporti con la Svizzera.
Grazie a tutte queste acquisizioni, la terza domanda (sulla leggenda dotta della presenza di Calvino in valle nel 1536) dà occasione di un vero esercizio di metodo. Perché Duc, in particolare, voleva negare fermenti protestanti locali precedenti il 1536 (e si vede in questo libro che aveva buone ragioni), ma voleva anche sostenere una generale refrattarietà valdostana (non vera, invece) rispetto al dissenso religioso, di cui gli piaceva sottolineare il carattere d’importazione. Curiosamente, in questa operazione di fondamento di un mito fra Seicento e Ottocento, si realizzò una convergenza con gli storici protestanti. Anch’essi istintivamente volevano nascondere qualcosa: per valorizzare la grande itineranza della predicazione - e il peso dei centri transalpini di elaborazione dottrinale - occorreva mettere tra parentesi l’attività più locale dei predicatori eporediesi e dei parroci sperimentatori. Dall’una e dall’altra parte, dunque, storia ‘usata’, piegata a fini propagandistici, da diversi fronti in grado di fornire materiale per un’unica costruzione identitaria. Di Tommaso ci accompagna in una visita ‘nella’ storia ma anche ‘sulla’ storiografia: con lo scopo del necessario restauro della sua neutralità.
Giuseppe Sergi
Postfazione di Paolo Papone:
Davvero benvenuto il lavoro di Leo Sandro Di Tommaso! La storiografia valdostana ha una tradizione antica, e pertanto presenta i pregi e i difetti di chi deve fare i conti con una eredità cospicua e stratificata. Ci furono tempi nei quali il racconto storico si impastava anche con i "si dice" e – quando era in gioco la religione – con l'argomento teologico della "convenienza", ovvero, considerando il contesto e la presunta statura morale dei personaggi, la convinzione che lo sviluppo degli eventi non potesse non seguire una certa logica, anche se nessun dato veniva a suffragarla. È chiaro che in tale prospettiva entrava una massiccia dose di soggettività arbitraria a condizionare non soltanto le valutazioni, ma anche la narrazione dei fatti. Oggi ci sentiamo più smaliziati, nonché fortunati fruitori di archivi finalmente ordinati, e tuttavia non siamo affatto convinti di poter attingere la reale oggettività dei fatti. Per avvicinarci un po' di più a questa meta, pare che non vi sia alternativa al dialogo tra prospettive diverse. Ecco perché accogliamo con gratitudine questa ricerca, questa nuova fatica editoriale.
In fondo, coloro che, poco o tanto, hanno percorso i sentieri della storia valdostana, soprattutto in chiave religiosa, si riconoscono tutti eredi di mons. Joseph-Auguste Duc, dalla cui opera monumentale hanno attinto e bevuto con labbra ora voraci, ora schifiltose. Perché i dieci volumi dell'Histoire de l'Eglise d'Aoste sono come le chiese costruite durante l'episcopato di mons. Duc: magniloquenti, verrebbe da dire esagerate, trionfalistiche, comprensibili come risposta a un clima socio-culturale che cercava di ridimensionare i vari aspetti della presenza della chiesa cattolica. Con questa impostazione, la storiografia di impronta duchiana ovviamente non andava in ricerca delle voci critiche, oppure le ridimensionava, facendone episodi marginali che non mettevano in pericolo la massiccia unità di fede e di morale del popolo valdostano.
Per far risaltare il colore della riforma protestante nella trama della storia valdostana, era proprio necessaria una voce riformata, quella che risuona in queste pagine. Si tratta di un lavoro insostituibile, per il fatto che nessun cattolico (ma anche nessun ateo o agnostico) si è finora occupato a fondo né forse si occuperà di una realtà, quella della riforma in Valle d'Aosta, che, stando ai numeri, non parrebbe avere grande rilevanza, mentre, guardata da un'altra prospettiva, diventa una cartina di tornasole delle dinamiche interne sociali, religiose e politiche di un segmento importante della nostra storia.
Proprio come nel leggere il vescovo Duc, anche qui si potrebbe sospettare troppa parzialità, opposta ma uguale a quella dell'illustre predecessore. Invece l'acribia storica di Leo Sandro Di Tommaso non è inficiata dal suo entusiasmo, perché il suo "interesse" è palesato fin da subito: il lettore non fatica a "far la tara", mentre viene utilmente e vivacemente stimolato a evitare una ottusa ripetizione del già detto. Proprio da cattolico, come rappresentante ordinato di quella chiesa cattolica che nel XX secolo ha perso gran parte della gloria mondana che fino a poco prima la assomigliava e la associava ai poteri di questo mondo, e che ora si è riconosciuta un po' più libera di camminare sulle vie del vangelo, leggo con molto interesse queste pagine, come uno che dalla sua finestra guarda un grande albero e chiede al dirimpettaio di raccontargli che cosa vede, di quell'albero, dalla sua finestra. Nel raccontarci vicendevolmente quel che vediamo, entrambi conosciamo molto meglio la realtà.
Paolo Papone
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Leo Sandro Di Tommaso
della Chiesa Evangelica Valdese di Aosta
BIOGRAFIA dell'autore tratta dal sito: www.rogersarteur.com
in data: Sabato 21 novembre 2008.
Leo Sandro Di Tommaso
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Leo Sandro Di Tommaso, insegnante e ricercatore, ha pubblicato saggi di medievistica (Comunità cittadina e potere signorile nell'Aosta medievale in Aosta; La vicenda storiografica delle franchigie aostane), e ricerche sulla dissidenza religiosa (La Riforma protestante in Valle d'Aosta. Una lunga e silenziosa resistenza tra guerra e neutralità armata in un crocevia dell'Europa; Calvino ad Aosta. Nascita e sviluppo di una leggenda politico-religiosa; Valdesi in Valle d'Aosta. Percorsi religiosi e culturali di una minoranza religiosa radicata nel territorio [1848-1950, 1951-2001]). I saggi sulla Riforma e su Calvino sono confluiti, dopo una puntuale revisione e con l'aggiunta della prima parte, nel volume che ora avete sotto mano. L'autore è membro del CRISM (Centro di Ricerca sulle Istituzioni e le Società Medievali) e del gruppo valdostano di corrispondenza del Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino. Ha tenuto conferenze e scritto articoli di carattere storico, teologico e letterario, tra cui: Airesis/Eresia: le vie della ricerca della verità nelle eresie. I casi del valdismo e del catarismo; Il dissenso religioso in Valle d'Aosta in tre fasi cruciali della storia europea. Dalla devianza stregonica alla presenza valdese (secolo XII-metà del secolo XIX). Due saggi sono stati pubblicati nei Seminari della Fondazione Federico Chabod, di cui è stato presidente.
DISSIDENZA RELIGIOSA E RIFORMA PROTESTANTE
Dopo i vari saggi usciti dagli anni Ottanta fino a oggi e il volume sui Valdesi in Valle d’Aosta, vede la luce in questi giorni un nuovo libro di Leo Sandro Di Tommaso, intitolato: Dissidenza religiosa e Riforma protestante in Valle d’Aosta. Il volume, edito dalla giovane casa editrice Roger Sarteur (che con questo libro aggiunge un nuovo ramo ai suoi prodotti), sarà presentato in Vescovado il 9 dicembre alle 17.30: presentazione significativa dello spirito ecumenico attribuito al lavoro di questo autore, di cui fa fede la Postfazione di Don Paolo Papone, mentre le prerogative scientifiche sono certificate, oltre che dallo stesso Papone, soprattutto dalla Prefazione dell’insigne medievista Giuseppe Sergi, da cui traiamo l’impianto per questa segnalazione.
Dice Sergi che Di Tommaso ha scritto pagine che “non sono esito di una semplice applicazione di tecniche storiografiche […], ma frutto di un metodo reso articolato e complesso da una ricerca di equilibrio fra schedatura delle fonti e stimoli delle proprie letture, non sempre erudite e non necessariamente specifiche”. “C’è, in questo - prosegue Sergi - una trasparenza di cui può giovarsi il lettore, che invece di trovarsi alla prese con note adatte solo a iniziati, trova anche citazioni di Friedrich Engels e di Marc Bloch, antiche questioni della grande storia, poste dal primo, e conclusioni rimaste insuperate, raggiunte dal secondo”.
Tre sono le domande a cui il libro intende rispondere: ci sono stati preannunci del movimento riformatore in Valle d’Aosta? Quali caratteri ha avuto questo movimento fra i secoli XV e XVII? Se non si hanno prove del passaggio di Calvino in valle, perché la sua presenza è entrata a far parte di una sorta di mito fondativo della regione?
Di Tommaso risponde alla prima domanda “con un consistente numero di pagine dedicate al medioevo, in cui la Valle d’Aosta appare priva di mobilitazioni pauperistiche assimilabili alla Pataria lombarda, mentre l’agire convergente di poteri laici ed ecclesiastici spiegano una lettura tutta in chiave di stregoneria di tutte le manifestazioni ereticali che dovevano essere perseguite”.
Per questo – ed ecco la risposta alla seconda questione – il successo della nuova predicazione riformata, immediato, notevole e straordinariamente coèvo agli eventi europei, appare come un’isola nel mare magnum dell’ortodossia precedente. Il quadro socio-politico del Cinquecento valdostano appare cristallizzato, carente di borghesia e saldo nel suo inquadramento entro il principato sabaudo: “non solo non ci sono le condizioni per l’importazione di un modello cantonale di tipo elvetico, ma la fortuna iniziale della Riforma non si può attribuire a ‘responsabilità’ esterne, secondo un’ispirazione ‘gallicana’, bensì a predicazioni provenienti dal mondo stesso dei fratres cattolici, in particolare da Ivrea”. L’autore - grazie anche alla sua capacità di tener conto, insieme, di uno “scenario geo-politico” non limitato alla valle ma anche di valutare le specifiche attestazioni locali - ci introduce al tema della gradualità e della provvisorietà. Parrocchie che passano “a una forma di luteranesimo” testimoniano di fasi in cui non si sta da una parte o dall’altra, in cui non ci sono repentine conversioni di massa, in cui si sperimentano forme di vita religiosa in cui sono ampie le aree grigie. I protestanti valdostani si rifugiano nel silenzio, mentre fino al primo Seicento il cattolicesimo conduce una vera lotta con poteri coordinati fra il vescovo Pietro Gazino, il visconte René de Challant e il duca Emanuele Filiberto. Si costruisce la “cittadella della cattolicità” che funge da barriera, interrompendo i suoi rapporti con la Svizzera.
La risposta alla leggenda di Calvino è “un vero esercizio di metodo”. Duc, in particolare, voleva negare fermenti protestanti locali precedenti il 1536 (e si vede in questo libro che aveva buone ragioni), ma voleva anche sostenere una generale refrattarietà valdostana (non vera, invece) rispetto al dissenso religioso, di cui gli piaceva sottolineare il carattere d’importazione. Curiosamente, in questa operazione di fondazione di un mito, fra Seicento e Ottocento si realizzò una convergenza con gli storici protestanti. Per valorizzare la grande itineranza della predicazione e il peso dei centri transalpini di elaborazione dottrinale, essi misero tra parentesi l’attività locale dei predicatori e dei parroci sperimentatori. Dall’una e dall’altra parte, dunque, storia ‘usata’, piegata a fini propagandistici, da diversi fronti in grado di fornire materiale per un’unica costruzione identitaria. Di Tommaso ci accompagna in una visita ‘nella’ storia ma anche ‘sulla’ storiografia: con lo scopo del necessario restauro della sua neutralità.
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