martedì 14 ottobre 2008

Ecumenismo: difficoltà e prospettive

Dove va l'ecumenismo?

di Fulvio Ferrario (parte prima)

Saremo risucchiati dalla secolarizzazione, i nostri numeri calano siamo sulla strada dell’estinzione, non vale la pena dialogare
Come tutti sanno, la stagione degli entusiasmi ecumenici è finita da un pezzo. Probabilmente, è ormai anche improprio parlare di una «crisi»: l’espressione suggerisce l’idea di una difficoltà passeggera. Ci troviamo invece in una fase di lungo periodo, che in queste righe vorrei provare a descrivere, dividendo la presentazione in due parti: la prima dedicata alla scena ecumenica mondiale, con particolare riguardo alla politica di Roma; la seconda centrata sul protestantesimo e sul ruolo, in esso, delle nostre piccole chiese.
Due velocità
Le «due velocità» dell’ecumenismo vaticano sono ormai proverbiali: il dialogo con gli ortodossi procede spedito, quello con le chiese della Riforma segna il passo. In questo c’è propaganda, ma anche una parte di verità. La prima consiste nel fatto che l’«avvicinamento» ortodosso a Roma non è così evidente. Che l’Oriente cristiano abbia ammorbidito le sue posizioni sulla questione del primato papale corrisponde più ai desideri vaticani che alla lettera dei testi. È vero, invece, che Roma e l’ortodossia si trovano d’accordo per quanto riguarda un certo spirito di crociata contro la modernità. Se sia giusto praticare l’ecumenismo mediante battaglie comuni contro i gay, è per lo meno dubbio, ma non per il papa né per il patriarca Alessio.

Con gli evangelici, invece, dopo l’entusiasmo (avvertibile più da parte luterana che cattolica, bisogna dire) a proposito della Dichiarazione sulla giustificazione (1999), il confronto non sembra promesso a magnifiche sorti e progressive. A mia conoscenza, i dialoghi bilaterali di Roma con luterani, riformati, battisti, non hanno in agenda passi avanti clamorosi; con gli anglicani è subentrato un grande gelo, visto che essi non si sono allineati con sufficiente prontezza alle posizioni romane, a esempio in materia di ministero femminile; più vivace, forse, il dialogo con il Consiglio mondiale metodista; infine, dev’essere menzionata la nuova stagione che, sia pur tra mille e mille difficoltà, apre con decisione il confronto con i movimenti evangelical. Si riscontrano dunque stasi, qualche evoluzione e alcune novità. C’è una logica, in questo?

Roma non «dà i numeri»: sa contare
Il Pontificio Consiglio per l’unità offre la sua lettura della situazione. Le chiese protestanti, esso afferma, insistono su un’idea di unità (quella della Concordia di Leuenberg: ne parleremo) minimalista; inoltre, sono libertine dal punto di vista etico, ordinano le donne, anche all’episcopato, aprono ai gay; infine (accusa recentemente aggiunta al tradizionale repertorio vaticano) accolgono al loro interno dottrine non dissimili da antiche eresie, relativamente alla Trinità e a Gesù Cristo. Insomma, questi protestanti sono inaffidabili. Per fortuna ce n’è qualcuno buono (in particolare in Scandinavia), interessato al papato, alla cosiddetta successione apostolica «storica», ecc. ecc.

In realtà, la freddezza romana ha ben altre motivazioni. Che i protestanti siano tali, Roma l’ha sempre saputo. Il Concilio voleva dialogare con loro perché riteneva che potessero contribuire al confronto con il mondo moderno. Oggi ciò non interessa più. Che poi le chiese evangeliche siano inaffidabili quanto alla dottrina, è semplicemente una calunnia: alcuni teologi e teologhe sostengono tesi curiose, in effetti, ma questo accade persino nelle facoltà cattoliche. La fede della chiesa è un’altra cosa e non è il caso di spiegarlo proprio al Vaticano.
No, il disinteresse per il protestantesimo ha un’altra ragione: secondo Roma, esso non ha futuro. Le chiese protestanti verranno inesorabilmente risucchiate dalla secolarizzazione; e chi non ci sta, diventerà cattolicheggiante o evangelicale. Mentre tra noi si continua a dire che «il problema non è il numero», secondo Roma proprio i numeri ci condannano, anche ecumenicamente: non contiamo, appunto, nulla. Con gli eretici (a esempio gli evangelicali) vale la pena dialogare; con quattro gatti secolarizzati e in via di estinzione, no. Questa è la sentenza romana. Può anche non piacere, ma merita di essere meditata.

tratto dal settimanale: RIFORMA del 3 ottobre 2008




Lavorare di più per l’unità dei protestanti

di Fulvio Ferrario (parte seconda)

La Concordia di Leuenberg (1973), chiese in comunione e in cammino
È importante che, almeno in Europa, le chiese protestanti imparino a esprimersi, nella loro forte pluralità, in modo armonico e non cacofonico, senza unilateralismi e fughe in avanti

Anche se oggi Roma tende a presentarsi come il vero centro del movimento ecumenico, le chiese della Riforma hanno sviluppato le uniche concrete esperienze di unità nella diversità. Particolarmente importante è la Concordia di Leuenberg (1973), che oggi dà luogo alla Comunità [ma sarebbe meglio dire: Comunione] delle Chiese protestanti in Europa.
La comunione dei protestanti
Le chiese luterane, quelle riformate, quelle che in Germania sono dette «unite», e le chiese metodiste si riconoscono pienamente come espressioni della chiesa una, santa, cattolica e apostolica: esse condividono la cena del Signore e riconoscono i rispettivi ministeri, in quanto riconoscono in quella dell’altro la propria fede. Che cosa fa sì che la chiesa sia chiesa, secondo i protestanti? Due elementi: la comune comprensione dell’evangelo e del significato dei sacramenti, cioè del battesimo e della cena. Tale consenso non esclude differenze teologiche anche profonde: si dice però che tali differenze non sono tali da dividere la chiesa. Secondo Roma, l’ortodossia, l’anglicanesimo e anche, purtroppo, secondo alcune chiese luterane nordeuropee, questo modello è insufficiente. Perché la chiesa sia chiesa, a parere di costoro, sarebbe necessario anche il ministero del vescovo, inteso come Roma lo intende. Leuenberg viene dunque accusata di essere un consenso «minimale».
Francamente, mi chiedo se chi usa questo aggettivo si rende conto di quel che dice. Il consenso sulla parola di Dio in Cristo e nel sacramento, cioè sulla rivelazione e sulla salvezza, sarebbe «minimale». E che cosa è «massimale»? Quello sull’episcopato e, eventualmente, sul papato. No comment.

La cattolicità del protestantesimo
In realtà, il consenso di Leuenberg è un modello ecumenico che non solo permette, ma valorizza la diversità. Soprattutto, è un modello che corrisponde al pluralismo testimoniato dal Nuovo Testamento. I suoi avversari affermano di voler ricercare l’unità nella diversità, ma in realtà vogliono un unico modello di ministero. Roma tollera solo diversità coreografiche e decorative, in realtà vuole l’uniformità, perché solo questo essa comprende e considera legittimo. Gli ortodossi, in fondo, l’hanno sempre saputo. A volte ci si chiede se certo anglicanesimo e certo luteranesimo scandinavo mostrino la stessa lucidità.
I critici sostengono che l’unità dei protestanti è formale. Non è vero. È vero, invece, che la cattolicità dei protestanti, cioè il fatto che la fede è plurale ma comune, dev’essere espressa con chiarezza. Che significa? In primo luogo, non aver paura dell’aggettivo. Le chiese della Riforma sono cattoliche, esprimono cioè localmente l’universalità della chiesa. Chi storce il naso di fronte a un tale aggettivo, lo regala a Roma, che non merita l’omaggio.

In secondo luogo, è utile lavorare perché il protestantesimo, almeno in Europa, impari a pensare il più possibile unitariamente. Anni fa si pensava a un sinodo europeo. Sugli strumenti, si può discutere. L’essenziale è che la voce protestante sia il più possibile armonica nella sua pluralità, e non cacofonica.
Proprio per questo, terzo, è essenziale che si agisca in modo ecumenicamente responsabile. Soprattutto quando si parla di evangelo, battesimo, santa cena, è opportuno che ciascuna chiesa operi in reale dialogo con le altre e che non vengano assunte unilateralmente decisioni che mettono in difficoltà la comunione delle chiese. Non tutti i protestanti sono sensibili a questo argomento, anzi, qualcuno è decisamente allergico a esso. In realtà, proprio le chiese minoritarie dovrebbero avere assai a cuore l’unità protestante e lavorare per essa. Leuenberg non è una palla al piede, è una possibilità per mostrare che la fede evangelica non è meno «cattolica», meno universale, meno comunionale, di quella romana. Anzi, lo è di più, perché non ha bisogno di gerarchi infallibili né di tribunali dottrinali. Non esiste un S. Uffizio protestante e ne siamo felici. Al posto dell’autoritarismo centrale c’è il dialogo, la pazienza del confronto, la volontà di capirsi e la consapevolezza che non siamo noi i soli a voler ascoltare l’evangelo. Altri lo fanno, in Francia come in Renania, in Lettonia come a Stoccarda; lo fanno i riformati più vicini a noi, ma anche luterani che a noi appaiono «conservatori», e che tuttavia hanno una grande teologia e di una storia ricchissima.

Il Sinodo di quest’anno si è aperto con un forte richiamo all’ascolto. Cattolicità non romana in fondo è questo: ascoltare la voce di Dio anche nella testimonianza dell’altra chiesa evangelica, facendo del dialogo il luogo del discernimento. A volte è faticoso, ma è quanto il Nuovo Testamento propone.

tratto dal settimanale:  RIFORMA del 10 ottobre 2008

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