del settimanale RIFORMA:
Il «giusto uso» della Cena del Signore
2. Possiamo ora affrontare le due domande.
Tratto dalla rubrica Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma del 4 luglio 2008
Il «giusto uso» della Cena del Signore
Qual è il giusto uso della Cena del Signore? Attraverso la Cena i credenti sono costituiti in un corpo unico che è la chiesa, corpo di Cristo (Efesini 1, 23-2, 16) cui hanno scelto di appartenere con il battesimo. Partecipare alla Santa Cena quindi significa essere membri della chiesa nella quale il credente riceve i segni della presenza di Cristo attraverso lo Spirito Santo. Partecipare alla Cena significa una precisa responsabilità di fronte a Dio e alla società: «… chi mangia e beve, mangia e beve un giudizio contro se stesso, se non discerne il corpo del Signore» (I Corinzi 11, 29). La missione della chiesa è di chiamare tutti intorno a quel tavolo sotto l’autorità di Gesù Cristo, malgrado e nonostante il mondo?
Elena Pezzini – LodiQuesta lettera solleva due belle e ardue domande, una all’inizio («qual è il giusto uso della Cena del Signore?») e una alla fine («la missione della chiesa è di chiamare tutti intorno a quel tavolo sotto l’autorità di Gesù Cristo?»), mentre al centro c’è un’affermazione che fa da cerniera tra le due domande, ma al tempo stesso ne solleva essa stessa parecchie. L’affermazione è questa: «partecipare alla Santa Cena significa essere membro della chiesa nella quale il credente riceve i segni della presenza di Cristo attraverso lo Spirito Santo». Cominciamo da questa affermazione, poi esamineremo le domande.
1. L’affermazione della nostra lettrice è molto seria perché mette giustamente in luce due fatti importanti. Il primo è che ogni celebrazione della Cena avviene in una comunità cristiana concreta, che la vive e interpreta in un certo modo, conferendole una particolare fisionomia e significato: un’eucaristia cattolica romana e una Cena zwingliana sono vissute entrambe, dai rispettivi fedeli, come «Cena del Signore», ma non sono certo la stessa cosa.
Il secondo fatto importante messo in luce dalla nostra lettrice è che c’è un nesso reale tra il pane-corpo di Cristo nella Cena (Lutero lo chiamava Leibbrot = lett. «corpo-pane») e la chiesa-corpo di Cristo che ogni comunità cristiana è, come dice l’apostolo Paolo: «Siccome v’è un unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane» (I Corinzi 10, 17). Qui comunità eucaristica (cioè quella raccolta intorno al tavolo della Cena) e comunità ecclesiale (cioè la chiesa locale nella quale questo avviene) sembrano sovrapporsi e identificarsi: l’unico pane costituisce i molti che lo ricevono in un’unica comunità; la condivisione del «pane-corpo» della Cena crea tra i partecipanti un legame tale da renderli un unico corpo. Questo dice, mi sembra, l’apostolo Paolo.
La nostra lettrice ne deduce che «partecipare alla Santa Cena significa essere membri della chiesa» in cui la si celebra: l’«unico corpo» frutto dell’«unico pane» è la comunità cristiana concreta nella quale la Cena ha luogo e di cui fanno parte tutti quelli che ricevono l’«unico pane». Chi partecipa alla Cena in una comunità «fa corpo» con quest’ultima, diventandone «membro».
È questa deduzione che francamente non mi convince e che mi sembra faccia dire a Paolo qualcosa che Paolo non dice. Per parte mia penso che partecipando alla Cena in una comunità particolare (che può essere la mia o una diversa dalla mia) affermo due cose. Anzitutto affermo la mia appartenenza a Cristo e al suo corpo, che però non è semplicemente la comunità particolare nella quale ricevo il pane e il vino, ma è la chiesa di Dio sparsa per il mondo, i cui confini (se ci sono) Egli solo conosce.
In secondo luogo affermo la mia comunione (che può essere parziale o completa) con la comunità concreta nella quale partecipo alla Cena. Questa comunione consiste nella comune confessione di Cristo Signore e Salvatore e nella fraternità cristiana che essa suscita. Ma essere in comunione parziale o completa con una comunità non vuol dire esserne membro, nel senso di una appartenenza formale e giuridica. Posso a esempio, come valdese, partecipare alla Cena in una chiesa battista, senza per questo diventare battista – e viceversa.
Cristo non è battista, né valdese, né luterano, né cattolico romano, né anglicano, e neanche lo è il suo corpo, né quello della Cena né quello che ogni chiesa è. È vero che il corpo-pane e il corpo-chiesa sono strettamente collegati, ma non sono identici, e la chiesa di cui siamo membri non è solo quella locale ma quella universale, e l’appartenenza a Cristo ci mette in comunione con tutto il suo corpo, non solo con la comunità concreta di cui facciamo parte. Occorre qui ribadire – perché è facile dimenticarlo – che la Cena è del Signore, non della chiesa, di nessuna chiesa particolare e di nessuna confessione. In ogni chiesa io la ricevo da Lui, tramite la chiesa, questo sì, ma non dalla chiesa.
Nella Cena, ogni chiesa riceve, non dà: Gesù è l’invisibile, ma reale, donatore. La Cena è sua, non nostra. Accogliendoci alla sua mensa Cristo ci consacra come membra sue e del suo corpo che è la chiesa universale. L’appartenenza alla chiesa universale ci dà la libertà di partecipare alla Cena in ogni chiesa cristiana particolare, indipendentemente dall’esserne membro oppure no. La cosa decisiva non è essere membro (nel senso di essere iscritti a una chiesa e farne concretamente parte), ma è essere in comunione con tutti coloro che nel mondo confessano Cristo come Signore e Salvatore.
In questa comunione e sulla sua base partecipiamo alla Cena là dove ci viene offerta nel Suo nome (e non nel nome di una chiesa), perché riconosciamo in quell’offerta l’invito di Cristo stesso – senza per questo diventare membri della chiesa particolare in cui questo accade. Ecco perché oggi in molte chiese evangeliche si pratica l’«ospitalità eucaristica» (che la chiesa cattolica e le chiese ortodosse ostinatamente rifiutano), cioè si accolgono alla mensa del Signore credenti appartenenti ad altre chiese e confessioni, appunto per esprimere il fatto che la comunione che il Signore offre alla sua mensa è più grande della comunione che ogni chiesa particolare può realizzare. Cristo cioè offre di più di quello che può offrire una singola chiesa, e ogni chiesa dovrebbe quanto meno non essere di ostacolo alla manifestazione della più grande e più inclusiva comunione di Cristo.
2. Possiamo ora affrontare le due domande.
[a] Alla prima: «Qual è il giusto uso della Cena?» risponderò ricordando che la più antica confessione di fede evangelica, l’Augustana del 1530, scritta da Melantone, dedica un articolo (il 13°) all’«uso dei sacramenti», in cui afferma che essi – il Battesimo e la Cena – sono «segni e testimonianze della volontà di Dio verso di noi» – che è la volontà di salvarci e rinnovarci. E Calvino chiama i sacramenti «pilastri della nostra fede» (che peraltro – precisa il Riformatore – è fondata sulla Parola di Dio), e ancora «specchi nei quali possiamo contemplare le ricchezze della grazia di Dio» (Istituzione IV, 14,6). Se è così, se cioè i sacramenti hanno un così grande valore, ed effettivamente lo hanno, essi non dovrebbero mancare in nessun culto cristiano. Ogni domenica il culto dovrebbe iniziare con il Battesimo e terminare con la Cena. Un culto senza Battesimo e senza Cena è monco.
Per quanto concerne in particolare il «giusto uso» della Cena come chiede la nostra lettrice, esso è quello che avviene nella fede, e questo concretamente significa: (1) nella gioia di essere invitati dal Cristo risorto e vivente alla sua mensa; (2) nella consapevolezza che non ne siamo degni, ma siamo affamati e assetati della giustizia di Dio, cioè di essere rivestiti con il manto della giustizia di Cristo, «che è venuto per cercare e salvare ciò che era perito» (Luca 19, 10); (3) nella certezza che il nostro peccato è stato cancellato nella morte di Cristo; (4) nella gratitudine festosa per la salvezza e la grazia di cui siamo resi partecipi nella fede e nella Cena; (5) nel desiderio di migliorare la qualità della nostra vita cristiana; (6) nella coscienza della fraternità universale dei credenti in Cristo e quindi di una comunione che sconfina oltre tutte le frontiere che li separano; (7) nell’impegno ad abbattere le barriere che dividono l’umanità, lacerando il suo corpo e causando innumerevoli sofferenze; (8) lavorando affinché il pane quotidiano sia condiviso nell’umanità come nella chiesa lo è il pane della Cena: condividendolo, si moltiplica; (9) pregando con l’invocazione Maranà tha = «Vieni, Signore!» (I Corinzi 16, 22); (10) aspettando il banchetto celeste con tanti invitati inattesi: «ne verranno da oriente e da occidente, e da settentrione e da mezzogiorno, e si porranno a mensa nel regno di Dio» (Luca 13, 29).
[b] La seconda domanda è: «La missione della chiesa è di chiamare tutti intorno a quel tavolo sotto l’autorità di Gesù Cristo?». La risposta è «sì» – un «sì» pieno e rotondo, senza «se» e senza «ma». Tutti sono invitati, non dalla chiesa, ma da Gesù stesso: «Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati, ed io vi darò riposo» (Matteo 11, 28). Davvero tutti sono invitati? Anche Giuda, che già aveva venduto Gesù per trenta denari? Sì, anche Giuda. Anche Pietro, che di lì a poco lo rinnegherà tre volte? Sì, anche Pietro. Anche gli altri discepoli, che tutti, senza eccezioni, si daranno alla fuga e lasceranno Gesù solo? Sì, anche loro. Gesù celebra la prima Cena della storia – la Cena modello per tutti i tempi – con Giuda e gli altri piccoli Giuda che sono i suoi discepoli (noi!), cioè appunto con i peccatori e i perduti.
Le chiese – molte chiese – non hanno seguito l’esempio di Gesù. Le chiese ortodosse non invitano tutti, ma solo gli ortodossi. La chiesa cattolica romana non invita tutti, ma solo i cattolici. Le assemblee dei Fratelli non invitano tutti, ma solo i cristiani battezzati da adulti. E così via. Pochi giorni or sono l’attuale pontefice ha dichiarato che possono partecipare alla Cena solo i «puri» e i «senza peccato» – ha detto proprio così, forse senza rendersi conto che è vero proprio il contrario, e cioè che la Cena è il banchetto della grazia offerta non ai giusti, ma agli ingiusti, non ai «senza peccato» (vorrei proprio sapere dove sono), ma ai peccatori – certo non ai peccatori impenitenti, ma a quelli che, sapendo di essere peccatori, si affidano alla misericordia di Dio come il pubblicano della parabola in fondo al tempio. Di Gesù dicevano i suoi avversari: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro» (Luca 15, 2). Ecco, la Cena è proprio questo: Gesù che accoglie i peccatori e mangia con loro. Chi è «puro» e «senza peccato» non ha bisogno di Cristo né della sua Cena. Mangi pure per conto suo, cibandosi della sua purezza illusoria, e lasci Cristo a noi peccatori.
Tratto dalla rubrica Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma del 4 luglio 2008
citazione dal sito: www.chiesavaldese.org
in data: mercoledì, 29 ottobre 2008, ore 13,15.
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